C’è una eredità mai raccolta nella storia cinema italiano, ed è quella del pasoliniano “ cinema di poesia”. Definizione complessa, di cui il regista di Accattone tentò anche una sistemazione teorica : alludeva alla possibilità che il linguaggio cinematografico potesse cogliere le emozioni nel loro immediato manifestarsi.
La chiave stilistica per comprendere quest’ intuizione pasoliniana è l’ analogia, la capacità delle immagini di evocare suggestioni e mondi diversi : basti pensare a Uccellacci e uccellini ( 1966) o La terra vista dalla luna ( 1967), in cui il montaggio delle situazioni e lo stupore dello sguardo doveva riuscire a restituire la vita nella sua intima verità. Quest’ analisi ( di per sé abbastanza discutibile) veniva sempre superata nelle sue opere dalla sincerità della visione tragica di Pasolini, dalla sua adesione ai vinti dalla storia, che li percuote nel corpo e nell’ anima.
I vinti della storia
Ritroviamo lo stesso atteggiamento verso il cinema e il mondo nella seconda opera di Pietro Marcello, La bocca del lupo ( 2009), una vicenda dolorosa di emarginati, che la durezza dell’esistenza ha stritolato senza pietà. Potremmo dire che il film è la storia d’ amore tra un emigrato siciliano e una transessuale, conosciuta durante lunghi anni di carcere.
In realtà, gli eventi di questo intenso rapporto amoroso non ci sono o non ci vengono mai raccontati se non per scorci e lampi improvvisi. Enzo, il protagonista, finisce due volte in carcere, colpevole sopratutto per un carattere orgoglioso e libero, incapace di sopportare soprusi: la sua compagna gli scrive lettere sensibili, piene di ironia ed affetto.
Il sogno che permea il loro rapporto è una casa in riva al mare e un orto da coltivare : solo una melanconica speranza di fuga dalla società, e l’ obiettivo di invecchiare insieme. Questa trama breve ( poco più di un ‘ora) è quasi inconsistente e non viene svolta secondo i canoni di rispecchiamento neorealistico. Il film presta invece attenzione e voce alle emozioni dei due protagonisti, ai significati simbolici delle immagini. La narrazione procede con due livelli che si intrecciano.
La Genova notturna di De Andrè
Il primo utilizza frammenti lirici e salti temporali, tra il passato e il presente: la separazione e il legame di Mary ed Enzo ci viene restituito dalla lettura di brani di lettere dei due amanti, che fanno da commento a lampeggianti descrizioni d’ ambiente ( stanze povere, il carcere, strade e locali miserevoli ). Il secondo livello è quello distaccato del documentario, che sembra invece mettere in risalto gli elementi di cronaca vera. Contribuisce alla suggestione poetica lo sfondi di una Genova sottoproletaria – quella dei carruggi cari a Fabrizio De Andrè -, notturna e misteriosa, popolata di poveri cristi senza speranza, destinati da sempre a divenire polvere della storia.
Realizzato da due produttori coraggiosi, con l’ aiuto dei gesuiti della Fondazione San Marcellino, il film si conclude con una citazione di alcuni versi di Fortini che accompagnavano Sopraelevata, una strada d'acciaio, un film girato a Genova da Valentino Orsini: “ .. questo è stato, una volta, in una città».
Un epigrafe che sembra sottolineare l’ impossibilità di redenzione per questi umiliati e offesi. In questo senso, definirei l’ opera di Pietro Marcello radicalmente cristiana.
( In uscita sul numero di aprile 2010 di Confronti)
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