" Adesso vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in parte, ma allora conoscerò perfettamente, come perfettamente sono conosciuto. Ora esistono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità; ma la più grande di esse è la carità" ( S. Paolo, 1° lettera ai Corinzi 13,1 )

lunedì 19 settembre 2011

Il cinema dei migranti, tra polemiche e ricerche

Uno dei temi dominanti della 68° mostra del cinema di Venezia, chiusa ai primi di settembre, è stato quello dei migranti e la scelta ha suscitato una vasta attenzione della stampa. Con un ‘ insistenza inedita rispetto ad un passato recente, molti film di finzione e documentari di autori italiani hanno messo al centro le nuove ondate di donne e uomini che dai paesi del sud del mondo arrivano nelle nostre città, chiedendo lavoro e una vita dignitosa.

L’emigrazione e la paura dell’ altro



Il motivo è un po’ banale, ma va sottolineato. L’ immigrazione è divenuta in Italia un fenomeno consistente dopo gli anni settanta e per un decennio almeno il problema non aveva trovato da parte degli artisti un’ attenzione diffusa ( se non forse nella narrativa ). Il tessuto economico e sociale del paese reggeva bene e la presenza di una società civile organizzata ( partiti sindacati, terzo settore) sembrava rendere il fenomeno controllabile entro i parametri allora dominanti.
In realtà, tra la fine del secolo e i primi anni del 2000, prima in Europa e poi in Italia, ci si è accorti in ritardo che i diversi modelli di integrazione ( da quello inglese a quello francese) non funzionavano, sia per le nuove, pesanti crepe nello sviluppo economico che per l’ abilità delle destre nel suscitare la paura dell’invasione. Politiche di integrazione comportavano investimenti massicci in servizi, scuola, cultura: e questo provocava una crescente ansia ed aggressività sociale.
La letteratura e il cinema non potevano rimanere indifferenti a questo problema, che tocca ormai la nostra vita quotidiana, dal quartiere alla scuola e al lavoro. La politica folle dei “ respingimenti” sulle coste non ha risolto nulla e si è resa responsabile di una vera e propria strage: secondo stime accreditate, nel canale di Sicilia sarebbero morte in questi ultimi anni 5900 persone.
Il migrante ci pone domande non solo nelle strade, ma dentro le nostre coscienze, aumentando il timore di perdere alcune “preziose” sicurezze. Alla mostra di Venezia questo grumo di conflitti è esploso in una serie di opere che hanno fatto parlare di una vera e propria tendenza di carattere politico. Molti degli autori italiani hanno voluto sottolineare quest’ aspetto, sottoscrivendo un vero e proprio manifesto programmatico.

Cinema dei migranti: ricerca o furbizia?



Le opere sono state in effetti un numero imponente: si va da due film di grande impatto drammatico come Il villaggio di cartone di Ermanno Olmi e Terraferma di Emanuele Crialese sino ad una commedia acida e surreale di Francesco Patierno (Cose dell’altro mondo). Andrea Segre, dopo una lunga carriera di documentarista, ha tentato il salto verso l’ opera a soggetto con Io sono li: una storia italiana dedicata al rapporto tra una piccola comunità di pescatori di Chioggia e un’ immigrata cinese. Un’ altro giovane regista come Guido Lombardi in Là-bas racconta la strage di sei persone di colore da parte della camorra, avvenuta a Castelvolturno il 18 settembre 2008. Si è molto discusso tra i critici sul valore da attribuire a questa attenzione inedita verso l’ immigrazione. Ilvio Diamanti ha evidenziato – a ragione – il valore emblematico da un punto di vista sociologico di questa idea del migrante come “pericolo”.
In un paese, esposto ai venti della crisi economica, incerto sulle prospettive del futuro, questa presenza pone interrogativi di non poco peso: “.. in questa fase – scrive Diamanti- mi pare che "gli altri" non si risolvano negli immigrati che giungono in Italia, spinti dalla necessità o dall'emergenza. In condizioni difficili, talora drammatiche. Oggi, in Italia, si sta diffondendo una sindrome dell'accerchiamento più estesa e indefinita. Ci sentiamo minacciati dall'esterno, da ogni fronte e da ogni direzione ”. ( Repubblica, 12 settembre 2011)
Fofi ha sottolineato sull’  Unità ( 17 settembre 2011) - con la sua consueta, giustificata veemenza- il rischio dell’ ambiguità: c’è il pericolo di affrontare il tema dell’ immigrazione con un eccesso di buonismo, per inseguire la commozione a buon mercato che ci fa sentire tutti " migliori". Avendo visto a Roma solo due opere ( Crialese e Patierno), ma conoscendo abbastanza bene gli autori presenti a Venezia, mi sembra di poter dire che le due affermazioni descrivono aspetti veritieri e complementari del nostro cinema.
Si veda la modalità di rappresentazione del film di Crialese. I migranti sono rappresentati efficacemente come corpi che invocano aiuto, mani e braccia che si protendono - con evidenza angosciante - a domandare soccorso e ascolto. Ma un dato è evidente: il regista è interessato in gran parte a leggere le nostre paure, le piccole ipocrisie di chi pensa al pericolo per il turismo e lascia morire le persone. Gli immigrati nel suo film non hanno voce, tranne quella flebile e disperata di una donna.
Nel film Cose dell' altro mondo i migranti addirittura scompaiono. Con un espedinte narrativo, di cui si era parlato già da qualche anno, Patierno immagina una cittadina del Nord Italia in cui all' improvviso non ci siano più migranti: le famiglie impazziscono e si sfasciano, gli anziani vengono abbandonati a se stessi, tutta la società si disgrega.

Un mutamento di senso



Con un umorismo efficace, anche se di grana grossa, il regista fustiga le ipocrisie di piccoli borghesi consumisti e incapaci di un qualsiasi istinto di solidarietà. Mentre Crialese – politicamente molto corretto e abile - corre il rischio del formalismo e del messaggio " umanitario", Patierno riesce ad essere più feroce, a scavare di più nel nostro immaginario. La sua rappresentazione dell' italiano medio è senza speranza. Si veda come il protagonista ( uno straordinario Valerio Mastrandea) debba ricorrere stancamente alla minaccia della pistola per ricevere un gesto minimo di solidarietà ( una badante a pagamento per la madre!).
Questi registi insomma riescono a raccontare non tanto i migranti come soggetti autonomi, con una identità e una cultura da conoscere e capire. I nuovi arrivi sono un' incubo disturbante che non riusciamo per ora a razionalizzare. Forse ha ragione Olmi che nel suo film ha compiuto a giudizio di tutti i critici una scelta di campo, con un apologo " cristiano" che invita al cambiamento interiore. Il regista ha dichiarato ai giornali: “ ..O cambiamo il senso impresso alla storia o sarà la storia a cambiare noi .. Se non apriamo le nostre case, compresa la casa più intima, che è il nostro animo, siamo solo uomini di cartone ”. Di questa radicalità avremo sempre più bisogno in futuro.


(In uscita sul mensile Confronti)

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