" Adesso vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in parte, ma allora conoscerò perfettamente, come perfettamente sono conosciuto. Ora esistono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità; ma la più grande di esse è la carità" ( S. Paolo, 1° lettera ai Corinzi 13,1 )

mercoledì 7 dicembre 2011

Kaurismaki: l'ironia melanconica di un maestro



Se  amate  il film d’ autore e volete riflettere criticamente su quello che vi circonda, non potete mancare l’ ultima opera di Aki  Kaurismaki, Miracolo a Le Havre. Regista finlandese, di idee progressiste,  ha iniziato la sua carriera come distributore di film e documentarista.  Dopo una rilettura di Shakespeare in chiave antiborghese  ( Amleto nel mondo degli affari, 1987), ha raggiunto il  successo nel corso degli anni novanta con opere ambientate  tra ceti i sociali più poveri ed emarginati. Il regista li racconta con un taglio  pessimista ed ironico.
Basti qui ricordare alcuni titoli, premiati in molte rassegne ( L'uomo senza passato, 2002;  Le luci della sera 2006): opere  che hanno incantato tanti per l’ originalità di una visione che riesce a  fondere  benissimo malinconia e venature surrealiste. Queste  caratteristiche  insolite  ne hanno fatto  una figura unica nel cinema  europeo. Kaurismaki osserva la realtà attraverso il filtro ironico dell’ anacronismo, di cui permea  gli ambienti,  i personaggi e le loro storie. 
Malgrado le vicende dei suoi  film si svolgano spesso in epoca attuale, le scenografie, le musiche, i vestiti degli attori evocano quasi sempre gli anni venti o trenta. Il regista usa per esempio  brani di tango messi in controcanto con la musica rock, da lui particolarmente amata. Per sottolineare molte scene di particolare tensione, che si svolgono comunque ai nostri giorni,  anche  in Miracolo  a Le Havre vengono adoperate le musiche di Carlos Gardel, il famoso compositore di tango argentino.
Altri elementi stilistici  sono la messa in scena e la recitazione: i personaggi dialogano tra loro  in modo distaccato,  quasi epico potremmo dire,  secondo il modulo brechtiano,  senza avere  però le forzature ideologiche del drammaturgo tedesco. Pronunciano frasi brevi e contrapposte in modo da suscitare effetti stranianti, non realistici. Il dato più interessante è il fatto che il regista mette queste forme della narrazione  al servizio di storie con una forte carica umanistica.  Il suo mondo sono gli umiliati e offesi, quelli che la vita ha tradito e isolato e la sua macchina da presa li osserva con occhio distaccato e commosso.


Commozione e  ironia favolistica


Si veda in questo film la figura di Marcel Marx. Il cognome può ricordarvi a scelta Karl o Groucho, mentre  il  nome è ovviamente  un omaggio ai film populisti del regista Marcel Carné. Lui è stato uno scrittore famoso,  rovinato  da una vita smodata e finito a fare il lustrascarpe. 
Questa professione   gli permette però  di rimanere vicino ai suoi amici, che Kaurismaki veste e fa parlare come personaggi dei film francesi degli anni quaranta: portuali  bruschi, ma dal cuore d’ oro; commissari di polizia meno brutali che all’ apparenza, e una moglie che sopporta serenamente le sue stramberie. La donna si chiama  infatti  Arletty,  come l’ attrice protagonista del celebre film di Carné, Amanti perduti. La citazione in questo contesto   ci invita al ricordo   di un film  fastoso  e melodrammatico che il regista usa come un preciso riferimento emotivo. 
In questo ambiente quasi da favola entra in scena la realtà. Un ragazzo, arrivato clandestinamente con un gruppo di emigranti, incontra il protagonista e affida a lui il suo destino. Non diremo ovviamente il finale, ma alcuni avvertimenti allo spettatore vanno dati. Il regista vuole  mettersi  dal punto di vista dei suoi personaggi poveri e perseguitati dal potere della polizia e dai borghesi razzisti. Ma non usa nessuna proclamazione  ideologica o una scontata verità  politica. Non vi rinuncia: vuole piuttosto che la ricaviamo noi dall’ andamento della storia. 
A conferma di quanto il suo sguardo sia critico e fermo, si badi ad un altro dato paradossale. Ad un anziano Jean Pierre Léaud – l’ attore icona di Truffaut in tanti suoi film - ha affidato la parte di un laido e violento borghese,  che passa le giornate a spiare un clandestino fragile e senza difese.
Intendo dire insomma che non ci si deve far ingannare dai toni sentimentali e gradevoli del film, dai colori ben scelti e dalla bontà dei  protagonisti. Dietro la tonalità favolistica,  c’è la visione crepuscolare e pessimistica di un intellettuale che dice allo spettatore:  in questa favola c’è più dolore e realismo di quanto tu immagini. E  guarda caso, nelle favole è proprio così.

( in uscita sul mensile Confronti)



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