Non succede spesso che tutta la critica sia d’
accordo nell’ elogiare con aggettivazioni significative un film. Invece è
accaduto quest’anno per Una separazione di Asghar Farhadi, film iraniano
che all’ultimo festival di Berlino ha avuto l’ Orso d’ Oro, oltre che delle
vere e proprie ovazioni. Il regista è nato a Ispahan nel
1972, ha studiato letteratura, cinema e teatro, facendosi notare con le sue
prime opere per l’ acutezza e l’ originalità dei temi. In questo film
raggiunge, come si usa dire, una piena maturità.
Al
centro della vicenda c’è una giovane coppia di estrazione medio - borghese, che
si presenta dal giudice per una decisione lacerante: Simin, una
donna energica e volitiva, vuole divorziare dal marito Nader. Dopo molte
difficoltà burocratiche hanno ottenuto il permesso di trasferirsi
all’estero per dare alla figlia un’ avvenire migliore, ma il marito si rifiuta
di abbandonare il padre malato di Alzheimer, e bisognoso di assistenza
costante. Nader si mette alla ricerca di una badante e trova alla fine
una giovane donna di estrazione popolare. Ai conflitti dolorosi che nasceranno
dal nuovo arrivo assiste la figlia che subisce con grande turbamento la
separazione dei genitori.
La narrazione
si sviluppa attraverso gli appartamenti dei protagonisti e le strade della
capitale, fornendoci innanzi tutto un ritratto sociologico dell’ Iran di oggi
descritto con oggettività e attenzione umana. La coppia medio- borghese è
divisa tra la fedeltà alle tradizioni culturali e i nuovi modelli della
modernità e del consumo. L’ arrivo nella casa di una giovane di diversa
estrazione sociale mette in evidenza abitudini e modi opposti di guardare alle
fede religiosa e ai comportamenti quotidiani. La vita della città è
descritta dal regista come uno spazio congestionato in cui questi
contrasti sociali modificano le psicologie e gli stati d’animo, provocando
dolore e tensione. Ciò che colpisce del film è lo sguardo con cui queste
tensioni vengono raccontate, uno sguardo privo di compiacimento o di
pesantezza. Il regista non cede ad un sociologismo facile, né al rischio
del sentimentalismo. Il film procede attraverso continui rovesciamenti di
posizione, in cui le ragioni di un personaggio sono in qualche modo
contraddette da quelle dell’ altro.
Il
tutto avviene non in modo meccanico, ma per un preciso intento
stilistico, e – oserei dire – morale. Tutti i contrasti emotivi e
socio-culturali sono raccontati con una commovente e
oggettiva partecipazione. I due protagonisti principali non
riescono a rinunciare alle proprie motivazioni personali e non comprendono
nulla delle ragioni dell’ altro. La famiglia della badante, che provocherà la
deflagrazione della vicenda, ci appare prigioniera di altre
contraddizioni: il bisogno di danaro viene a configgere con le prescrizioni
della fede religiosa, vissute in modo rigorosamente ortodosso. Di tutti ci
rimane comunque la verità del loro mondo emotivo.
Il tema sotteso al film è quello della
scelta, a cui siamo sempre chiamati nella nostra esistenza: e le scelte
producono comunque sofferenza e separazioni. Con una freschezza ammirevole, la
macchina da presa ci lascia nella memoria volti, suoni e colori. Da
non mancare.
(
In uscita sul mensile Confronti)
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