" Adesso vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in parte, ma allora conoscerò perfettamente, come perfettamente sono conosciuto. Ora esistono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità; ma la più grande di esse è la carità" ( S. Paolo, 1° lettera ai Corinzi 13,1 )

mercoledì 26 gennaio 2011

L' ultimo Clint Eastwood: raccontare il limite

Con Hereafter Clint Eastwood conclude una sua lunga riflessione sui temi fondamentali dell'esistenza (la vita, la malattia, la morte), iniziata almeno dal 2002 con un film molto bello, e poco studiato come Debito di sangue. E' venuta così emergendo la personalità autentica di un autore interessato ad interrogarsi sulla condizione umana e i suoi limiti, con alcune caratteristiche insolite rispetto al cinema degli ultimi decenni. Innanzi tutto, va ricordata la classicità del suo stile narrativo. Eastwood ama il cinema della grande Hollywood, quella degli anni 1940-60, fondata sulla struttura compositiva, la centralità dei personaggi e delle storie.
Insegue quindi la costruzione lucida, razionale della trama, insieme ad un uso ben controllato della recitazione. Il dato più interessante è però un'altro. Da tempo il regista è venuto legando le possibilità del racconto ad una precisione visione del mondo. Nelle sue opere recenti appare sempre più preoccupato da una condizione dell'uomo contemporaneo, dominata dall'egoismo, dalla violenza e dalla sopraffazione. La sua non è però un' analisi politica, ma ha un tono e uno sguardo più interiori, di carattere etico. Quella di Eastwood è l' analisi dolorosa di chi si interroga di fronte al mistero, con sincerità e un profondo sentimento di smarrimento.


Un tema molto rischioso


Si veda la struttura di Hereafter, dedicato ad un tema rischiosissimo, che poteva facilmente scadere nel ridicolo: la morte e la possibilità di comunicare con i morti. Con una formula assai consueta, tre storie diverse, ambientate in tre diverse città d' Europa e d' America, si intrecciano fino a confluire in una finale comune. A San Francisco si nasconde il sensitivo George, un uomo che ha una maledizione (così la definisce) cui cerca di sfuggire: parlare con i morti. A Londra Marcus, un dodicenne con la madre tossica e un fratellino gemello, vive una condizione di emarginazione e sofferenza. A Parigi infine lavora Marie, giornalista televisiva di successo, che si interroga dopo essere sopravvissuta al terribile tsunami dell' Indonesia
La chiave interpretativa per comprendere il film sta nei dieci minuti della sequenza iniziale, girata integramente al computer. Giudicata unanimemente come una delle scene più strazianti e terribili mai visti al cinema, definisce la cornice in cui poi i vari personaggi si muoveranno. Il maremoto evoca una situazione estrema di precarietà e di morte , in cui l' uomo moderno è gettato, ma di cui sembra rifiutarsi di prendere coscienza. Basta un caso (altro tema centrale del film) e la situazione dell' individuo può cambiare: dalla ricchezza e dalla stabilità si può precipitare all' improvviso nel dolore e nella morte. Tutti i personaggi del film sono costretti a fare i conti con questa finitezza e chiamati a delle scelte radicali.


Raccontare con umiltà


Il regista ci narra questo grumo di sentimenti e di domande complicatissime con una semplicità ed una umiltà narrativa ammirevoli. Non si schiera per una tesi ideologica o religiosa, ma le racconta tutte, passando con fluidità dal tono spaventoso dell'inizio a quello più lieve di altri momenti (il corso di cucina italiana, un funerale e una storia d' amore contemplati con ironia).
Sembra quasi volerci dire una verità struggente. Degli uomini posso raccontare solo questo: il mistero di un' alternanza casuale di tragedia e leggerezza, entro cui dobbiamo costruire la nostra umanità. Il richiamo a Charles Dickens nel film è sintomatico. Grazie a questo rigore narrativo, il regista ci ha dato un' altra opera che crescerà nel tempo.


( In uscita sul prossimo numero di " Confronti")

lunedì 24 gennaio 2011

Una riflessione dopo il referendum FIAT a Mirafiori

Questo testo verrà pubblicata come editoriale sul prossimo numero del mensile Confronti


Dopo il referendum tra i lavoratori della Fiat a Mirafiori sulla proposta produttiva di Sergio Marchionne, che modifica radicalmente le relazioni sindacali in fabbrica, è molto difficile prevedere come si evolveranno i rapporti tra azienda e lavoratori e quali saranno le conseguenze di questa vicenda sulla crisi politica italiana - in preda ormai ad un crescente corrompimento.
Un primo dato comunque va messo in evidenza. Le percentuali di 45% a favore del No e 55 % a favore del Si segnalano che non c' è stato il plebiscito auspicato da un' impressionante coalizione di forze politico-mediatiche ( presidente del consiglio, ministri, Confindustria, televisioni, grandi giornali, ecc). Dalla realtà concreta della fabbrica, da quei settori che sperimentano ogni giorno la fatica fisica e psichica di produrre è emersa una volonta comune di far pesare la propria opinione su un tema essenziale in una democrazia: i diritti, il rapporto tra lavoro e vita quotidiana delle persone. Pochi, per esempio, hanno ricordato un nodo esistenziale importante come l' età media di quei lavoratori che passavano dinanzi ai tornelli ( e spesso si trattava di donne con figli).
Se si riflette da quali anni veniamo, questo voto costringerà di nuovo tutti a discutere di lavoro. Il ciclo politico- sindacale iniziato con gli anni novanta del secolo scorso è stato caratterizzato dalla scomparsa del senso e del ruolo sociale del lavoro dalla scena pubblica. Il sistema politico si è contratto in una drammatica autoreferenzialità: alla violenta prevalenza del blocco sociale populista e corporativo non ha corrisposto da parte delle forze democratiche e di sinistra - nel loro complesso - la proposta di un' alternativa che fosse insieme radicale e credibile.


Ma le classi esistono ancora?


Sul versante sociale, mentre prevaleva la frammentazione dei ceti e la precarizzazione del lavoro, si sono diffuse nell'immaginario ideologie ipocrite sulla scomparsa degli operai e delle classi sociali. Il clamore televisivo benediceva il trionfo di un ceto medio universale, pronto al benessere diffuso e al progresso indefinito.
Da due anni la realtà - dura come un macigno - ha smentito queste illusioni. Non mi riferisco solo ai dati generali di una crisi mondiale, che pure pesa fortemente su questa vicenda. E' una crisi che vede al centro la ristrutturazione di settori come le grandi banche e tutto il comparto dell' automobile: si dovrà decidere prima o poi se l' auto è ancora un modello di trasporto sostenibile per il futuro del globo.
Mi riferisco invece alle condizioni specifiche della società italiana che faticano ad emergere nei dibattiti televisivi. Se li si vuole ascoltare, i dati parlano con chiarezza. Secondo l' Istat, nel 2009 l’incidenza della povertà relativa è stata pari al 10,8%, mentre quella della povertà assoluta risultava del 4,7%. Sull' area della povertà e dell' emarginazione incide pesantemente il tracollo di servizi sociali fondamentali come la scuola e la sanità.
Riguardo invece al mondo del lavoro, il meccanismo della precarietà tocca 3.757.000 individui , tra i quali uno su quattro non è occupato. Il quadro si completa se ricordiamo che l' 80% del sistema industriale è costituito da piccole aziende ( tra 15 e 50 operai), in pesante difficoltà nella concorrenza globale. A questi numeri va poi aggiunta la disoccupazione (in specie, quella giovanile).


La solitudine del lavoro


Per avere un panorama realistico della condizione di sofferenza e di frammentazione del lavoro operaio, che esiste e resiste con grande determinazione, si può leggere uno splendido libro- inchiesta come Diario operaio ( Ediesse, 2010): un grande inviato come Rinaldo Gianola vi racconta con drammatica concretezza la realtà viva della solitudine del lavoro operaio.
Quel 45 % degli operai FIAT, con la propria presenza corporea, ha fornito una risposta immediata, ma precisa: una crisi di questa natura non può essere risolta attraverso una diminuzione secca di diritti elementari come la difesa dalla fatica psicofisica e la possibilità di votare per i rappresentanti che si scelgono.
Sono tanti i problemi politici ed economici che dovranno essere affrontati nei prossimi mesi: il futuro europeo e mondiale dell'auto; il collasso del governo Berlusconi; l' incapacità della politica di dare rappresentanza al lavoro subordinato e alla sue mille sofferenze in questa fase nuova.
Sul piano sindacale, c' è da augurarsi per ora che FIOM e CGIL rafforzino quel legame unitario, rinnovato con la segreteria di Susanna Camusso, evitando nuove e drammatiche frammentazioni. Nel medio periodo, è poi evidente che la divisione tra i sindacati confederali è un danno pesante per tutti. A questa divisione contribuisce un' azione di pericolosa strumentalizzazione politica da parte di alcune forze di governo. Questo tema sarà destinato ad emergere sempre di più nel prossimo futuro.
E' ovvio che all'isolamento corporativo si risponde solo con la ricostruzione paziente di esperienze unitarie tra i vari segmenti oggi separati dell'arcipelago-lavoro: operai di fabbrica, lavoratori precari e parasubordinato, disoccupati.
La strada per ridare visibilità pubblica alla solitudine operaia è ancora lunga.