" Adesso vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in parte, ma allora conoscerò perfettamente, come perfettamente sono conosciuto. Ora esistono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità; ma la più grande di esse è la carità" ( S. Paolo, 1° lettera ai Corinzi 13,1 )

sabato 8 maggio 2010

Il cinema indiano: intrecci tra modernità e tradizione

Mai come in questi ultimi anni l' India e tra noi. Lo è col suo sviluppo impetuoso in settori vitali per le economie dell' Occidente, come l' informatica, la fisica e la medicina. Lo è ormai da vari decenni nella letteratura e nel cinema che hanno contribuito a modificare il nostro immaginaio ancora prima dell' attuale fase di sviluppo economico. L' industria cinematografica si è impiantata in India gia ai primi del Novecento, divenendo molto attiva nel corso degli anni venti e trenta. Grazie anche alla presenza e all' influenza di importanti comunità indiane in Europa e negli Stati Uniti, il cinema indiano è divenuto da tempo uno strumento di comunicazione cosmopolita. Si è rivelato sempre più abile nell' alternare la ricerca artistica raffinata con le storie a carattere popolare che utilizzano due aspetti essenziali della cultura indiana come la musica e la danza.
I registi indiani vengono a girare in Europa e quelli europei ed americani vanno in India. E' noto dal 2008 il caso di Spielberg che ha dato origine ad una società cinematografica autonoma con un gruppo indiano di telecomunicazioni come Reliance Ada Group, con sede a Bombay. Dalla collaborazione delle produzioni cinematografiche di questa città con quelle americane è nato The Millionaire, film vincitore di ben 8 premi Oscar. Il film era diretto da un regista scozzese come Danny Boyle ( Trainspotting, 1996) ed emigrato in America dopo il 1997. Il film, arrivato ad un successo mondiale, va segnalato sopratutto come fenomeno produttivo con costi molto alti: tra l' altro, è stato realizzato in collaborazione con la regista indiana Loveleen Tandan, basandosi sul romanzo di Vikas Swarup, Le dodici domande.

Una regista di fronte all' India moderna

Questa fusione di ambizioni artistiche e culturali con quelle produttive e spettacolari si ritrova in molti registi indiani delle ultime generazioni: tutti vivono e raccontano ( in banale sintesi) il legame contradditorio - spesso drammatico - tra una tradizione culturale millenaria e una modernità che tutto travolge e modifica ( o peggio appiattisce).
Esemplare e il caso della regista Deepa Mehta, la cui storia rispecchia bene le complicate relazioni tra la società indiana e il resto del mono occidentale. Laureata in filosofia, nel 1973 si trasferisce in Canada con il marito e produttore P. Saltzman. Esordisce alla regia con Camilla (1994), storia dell’amicizia fra una giovane aspirante cantautrice e una violinista. Dopo Fire ( 1997) e Earth (1998), firma Water ( 2005). ultimo capitolo di una possibile “trilogia degli elementi ( fuoco, terra, acqua).
I temi che affronta sono di grande suggestione, e hanno avuto un forte impatto in tutto il mondo : la condizione di oppressione della donna; la storia indiana segnata dal dominio inglese e dall'eredità di Gandhi.
Temi tipici della “modernità”, come si vede, tanto da far sottolineare a qualcuno che registe come Mehta siano popolari solo tra una ristretta èlites dell' India e amate sopratutto da noi. Per chi vuole approfondirte questo tema, si può vedere il bel volume di Elena Aime Breve storia del cinema indiano – Alla scoperta di Bollywood e non solo ( Lindau, 2006, p. 260,).Ma, al di là di questo nodo intepretativo, un dato è indubbio : registe come Metha e Mira Nair contribuiscono a portare verso le platee occidentali i problemi e le atmosfere culturali e sociali dell' India. Forniscono così un buon contributo ad un processo di assimilazioni di argomenti che dopo potranno essere affrontati con la necessaria selezione qualitativa.

Il matrimonio di una bimba: tradizione e oppressione

Si veda come esempio il terzo film della trilogia di Metha. Water ci narra le vicende di Chuya, una ragazzina di appena otto anni, allontanata dalla sua famiglia e trasferita in una casa ritrovo per vedove indù: il marito, a cui è stata data in sposa così giovane, è morto.Secondo la tradizione, concedere in spose bambine e adolescenti a uomini più anziani era un uso comune in alcune regioni dell'India.
Quando un uomo proveniente da una famiglia hindu ortodossa moriva, la sua giovane vedova veniva obbligata a passare il resto della sua vita in una casa per vedove: doveva fare penitenza per i peccati commessi nella sua vita precedente, che si credevano essere la causa della morte del marito. Il racconto nella seconda parte pone con grande chiarezza proprio un dilemma teologico, di impronta ermeneutica: una norma sacra, ereditata per tradizione può essere interpretata ? e sino a che punto?
Con finezza di osservzioni psicologiche, la storia viene raccontata attraverso gli occhi della giovane impulsiva e cordiale. La sua amicizia con Kalyani, giovane vedova innamorata di un' intellettuale, sostenitore di Gandhi, porterà allo scontro tra gli impulsi dell' amore, che richiede libertà, e le costrizioni della tradzione. Si tenga presente un dato che rende ancora più significativo il contesto della storia: le vicende del film si svolgono nel 1938, quando l' India era ancora sotto il dominio dell' Inghileterra e Gandhi veniva rilasciato dalla prigionia. E proprio la figura del protagonista dell' indipendenza indiana permette al finale un lieve fiotto di speranza.

Uno sguardo sensibile e pieno di lucidità

L' argomento centrale della narrazione - la condizione della donna e specialmente delle vedove - è svolto con una sensibilità ammirevole: le vedove sono prigioniere non solo di regole religiose da rispettare con severità, ma anche di più corposi bisogni di guadagno e di sopravvivenza delle donne più anziane.
Deepa Mehta non cede alle tentazioni del film politico di stampo populista, ma esplora in profondità le psicologie delle prigioniere della casa e quelle della bambina, che è la vera protagonista della storia. Lo sguardo limpido e disincantato della regista ha provocato al film i duri attacchi di un'organizzazione formata da fondamentalisti indù, la quale già nel 2000 distrusse i set del film. Solo cinque anni dopo il film è stato completato in segreto nello Sri Lanka.
Si rimane ammirati dall'equilibrio con cui la storia riesce a fondere emozioni e nostalgiue dell' amore con i temi sociali e politici. Certo, nell' insieme, la confezione perfetta richiama da vicino la capacità di realizzazione dei grandi facitori di storie inglesi ed americani ( si pensi a David Lean o a Michael Curtiz).
Ma non è un male, tutto sommato. L' India è oggi un grande paese industriale, segnato da un retaggio antico di povertà e contraddizioni. Il cinema, insieme alle altre arti, può aiutarla a sperimentare e approfondire nuove identità e nuovi prospettive.

(In uscita sul n. di maggio di Confronti)

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