" Adesso vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in parte, ma allora conoscerò perfettamente, come perfettamente sono conosciuto. Ora esistono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità; ma la più grande di esse è la carità" ( S. Paolo, 1° lettera ai Corinzi 13,1 )

mercoledì 23 novembre 2011

Separarsi a Teheran




 Non succede spesso che tutta la critica sia d’ accordo nell’ elogiare con aggettivazioni significative un film. Invece è  accaduto quest’anno per Una separazione di Asghar Farhadi,  film iraniano che all’ultimo festival di Berlino ha avuto l’ Orso d’ Oro, oltre che delle  vere e proprie ovazioni. Il  regista è nato  a Ispahan nel 1972, ha studiato letteratura, cinema e teatro, facendosi notare con le sue prime opere per l’ acutezza e l’ originalità dei temi. In questo film raggiunge, come si usa dire, una piena maturità.
Al centro della vicenda c’è una giovane coppia di estrazione medio - borghese, che si presenta dal giudice  per una decisione lacerante:  Simin, una donna energica e volitiva, vuole divorziare dal marito Nader. Dopo molte difficoltà burocratiche hanno ottenuto il permesso di  trasferirsi all’estero per dare alla figlia un’ avvenire migliore, ma il marito si rifiuta di  abbandonare il padre malato di Alzheimer, e bisognoso di assistenza costante. Nader si mette alla ricerca di una badante  e trova alla fine una giovane donna di estrazione popolare. Ai conflitti dolorosi che nasceranno dal nuovo arrivo  assiste la figlia che subisce con grande turbamento la separazione dei genitori.
La narrazione si sviluppa attraverso gli appartamenti dei protagonisti e le strade della capitale, fornendoci innanzi tutto un ritratto sociologico dell’ Iran di oggi descritto con oggettività e attenzione umana. La coppia medio- borghese è divisa tra la fedeltà alle tradizioni culturali e i nuovi modelli della modernità e del consumo. L’ arrivo nella casa di una giovane di diversa estrazione sociale mette in evidenza abitudini e modi opposti di guardare alle fede religiosa e  ai comportamenti quotidiani. La vita della città è descritta dal regista come uno spazio congestionato in cui  questi contrasti sociali modificano le psicologie e gli stati d’animo, provocando dolore e tensione. Ciò che colpisce del film è lo sguardo con cui queste tensioni vengono raccontate, uno sguardo privo di compiacimento o di pesantezza.  Il regista non cede ad un sociologismo facile, né al rischio del sentimentalismo. Il film procede attraverso continui  rovesciamenti di posizione, in cui le ragioni di un personaggio sono in qualche modo contraddette da quelle dell’ altro.
Il tutto avviene  non in modo meccanico, ma per un preciso intento stilistico, e – oserei dire – morale. Tutti i contrasti  emotivi e socio-culturali sono raccontati con  una commovente e  oggettiva  partecipazione. I due protagonisti principali non riescono a rinunciare alle proprie motivazioni personali e non comprendono nulla delle ragioni dell’ altro. La famiglia della badante, che provocherà la deflagrazione della vicenda, ci appare prigioniera di altre   contraddizioni: il bisogno di danaro viene a configgere con le prescrizioni della fede religiosa, vissute in modo rigorosamente ortodosso. Di tutti ci rimane comunque la verità del loro mondo emotivo.
 Il  tema sotteso al film è quello della scelta, a cui siamo sempre chiamati nella nostra esistenza: e le scelte producono comunque sofferenza e separazioni. Con una freschezza ammirevole, la macchina da presa  ci lascia nella memoria  volti, suoni e colori. Da non mancare.
( In uscita sul mensile Confronti)

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