" Adesso vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in parte, ma allora conoscerò perfettamente, come perfettamente sono conosciuto. Ora esistono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità; ma la più grande di esse è la carità" ( S. Paolo, 1° lettera ai Corinzi 13,1 )

giovedì 5 gennaio 2012

Un occhio sull’inferno di Maurizio De Giovanni

E' uscito oggi sul Mattino un commento di Maurizio De Giovanni sul processo per il delitto di Sarah Scazzi.  Con delicatezza psicologica ed etica, lo scrittore esplora il retroterra oscuro di queste violenze che sembrano segnare in modo indelebile la vita pubblica. De Giovanni è divenuto  molto noto per  una serie di  quattro noir,  usciti per la Fandango: i romanzi hanno per protagonista il Commissario Ricciardi ed intrecciano felicemente introspezione psicologica e interrogativi etici. Una nuova vicenda di questo personaggio - la quinta (Per mano mia. Il Natale del commissario Ricciardi, 2011) -  è stata pubblicata da poco per Einaudi.


Sapete, in ogni presepe napoletano c’è un pozzo. Ha un significato, è un simbolo: rappresenta il passaggio costantemente aperto fra il mondo dei vivi e l’inferno.
Chissà perché gli uomini immaginano l’inferno come un mondo sotterraneo; forse pensare alla pena eterna sotto i piedi, da qualche parte laggiù, può servire a ricordare che caderci dentro è semplice. E un pozzo, che affonda nel buio come una porta fin troppo facile da varcare, è un occhio spalancato su un ignoto che non ha nessuna possibilità di redenzione. Un viaggio senza ritorno.
Sapevamo tutti del triste destino del corpicino di Sarah; abbiamo discusso di quella maledetta trasmissione in cui la madre apprese in diretta che non poteva aggrapparsi nemmeno a quel filo di speranza che fino ad allora l’aveva sostenuta. Abbiamo letto e ascoltato le mille versioni di zii e cugine, la descrizione del viaggio che il cadavere fece quella terribile notte. Abbiamo immaginato. Ma immaginare e vedere sono cose diverse. Terribilmente, orribilmente diverse.
Gli scatti del ritrovamento del corpo di Sarah rendono tridimensionale l’orrore. Fanno venire la sofferenza, la pena e la compassione fuori dalle anime e le rendono reali. Non so voi, ma guardando quelle immagini io ho sentito l’odore acre della morte, l’osceno rumore dell’acqua stagnante, la ripugnante consistenza del fango. E ho provato sulla pelle, freddo e tagliente, il tocco dell’atroce sorte di una bambina che è la figlia di tutti noi.
Non so cosa passasse per la testa di Michele Misseri, mentre arrancava verso quell’apertura sull’inferno con il corpo ancora caldo di sua nipote morta in spalla. Non so chi l’abbia uccisa, e perché; forse nemmeno mi interessa. Scorrendo gli scatti dall’inferno mi interessa solo il delitto di gettare quei resti nel pozzo, perché quella è una colpa a parte, distinta dall’omicidio, e non solo per il codice penale: lo è per l’estremo insulto verso quel sorriso che poche ore prima brillava, verso quei capelli che si muovevano nel vento, verso quella vita che pulsava.
Ma l’inferno conserva solo chi a esso è destinato; quello che rimaneva di Sarah, della sua allegria, della sua gioia di vivere non poteva restare là sotto a marcire per la salvezza di chi ce l’aveva gettata. E Sarah è tornata.
Vedere quel pozzo oggi significa vederlo con gli occhi di Misseri, quella notte: un’apertura nella terra, una bocca sdentata e profonda pronta a ingoiare. Significa immaginare un viso stravolto, una mente angusta e ottusa che rigira tra sé il pensiero di come farla franca, mentre le braccia spingono quel piccolo corpo nel buio.
Non ci sono colori, in questi scatti. E non avrebbero potuto essercene: l’abisso è nero, l’inferno è nero. Guardiamo il magistrato che indica il luogo esatto. Guardiamo le macchine, gli uomini scavare. Guardiamo la luce del sole ritrarsi, disgustata. Guardiamo le mascherine sulle facce. Guardiamo mani guantate che misurano l’apertura sull’abisso. Guardiamo cavi che si immergono nel buio. Scene di ordinario lavoro del crimine, il balletto del dopo morte. Tutto agli atti.
Ma l’orrore emerge dal buio e ci ingoia tutti: perché è cadendo in quel pozzo, più ancora che smettendo di respirare, che Sarah Scazzi è diventata, dalla ragazza piena di vita e di futuro che era, un cadavere. Perché ci torniamo anche noi, sull’orlo di quell’abisso dal quale Michele Misseri ascoltò l’orrido tonfo sul fondo del buio. E non riusciremo a dimenticare.
Chissà se il contadino di Avetrana, piangendo senza ritegno davanti alle telecamere, sentiva risuonare dentro quel rumore; francamente speriamo di sì. E speriamo che senta quel rumore ogni notte, ogni giorno, ogni momento che gli resta da vivere. E che lo possa immaginare chi ha voluto spegnere quella vita piena di futuro, abisso contro abisso, buio contro buio.
Perché sia vero ancora una volta che il pozzo è il passaggio per l’inferno. E che in quel pozzo Michele Misseri ha trovato il suo inferno.

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