Se amate il film d’ autore e volete riflettere
criticamente su quello che vi circonda, non potete mancare l’ ultima opera di
Aki Kaurismaki, Miracolo a Le Havre. Regista finlandese, di idee progressiste, ha iniziato la sua carriera come distributore
di film e documentarista. Dopo una
rilettura di Shakespeare in chiave antiborghese
( Amleto nel
mondo degli affari, 1987), ha raggiunto il
successo nel corso degli anni novanta con opere ambientate tra ceti i sociali più poveri ed emarginati.
Il regista li racconta con un taglio
pessimista ed ironico.
Basti qui ricordare alcuni titoli, premiati in molte rassegne ( L'uomo senza passato,
2002; Le luci della sera 2006): opere che hanno incantato tanti per l’ originalità
di una visione che riesce a fondere benissimo malinconia e venature surrealiste.
Queste caratteristiche insolite
ne hanno fatto una figura unica nel
cinema europeo. Kaurismaki osserva la
realtà attraverso il filtro ironico dell’ anacronismo, di cui permea gli ambienti,
i personaggi e le loro storie.
Malgrado le vicende dei suoi film
si svolgano spesso in epoca attuale, le scenografie, le musiche, i vestiti
degli attori evocano quasi sempre gli anni venti o trenta. Il regista usa per
esempio brani di tango messi in
controcanto con la musica rock, da lui particolarmente amata. Per sottolineare
molte scene di particolare tensione, che si svolgono comunque ai nostri
giorni, anche in Miracolo a Le Havre vengono adoperate le musiche
di Carlos Gardel, il famoso compositore di tango argentino.
Altri elementi stilistici sono la
messa in scena e la recitazione: i personaggi dialogano tra loro in modo distaccato, quasi epico
potremmo dire, secondo il modulo
brechtiano, senza avere però le forzature ideologiche del drammaturgo
tedesco. Pronunciano frasi brevi e contrapposte in modo da suscitare effetti
stranianti, non realistici. Il dato più interessante è il fatto che il regista
mette queste forme della narrazione al
servizio di storie con una forte carica umanistica. Il suo mondo sono gli umiliati e offesi,
quelli che la vita ha tradito e isolato e la sua macchina da presa li osserva
con occhio distaccato e commosso.
Commozione e ironia favolistica
Si veda in questo film la figura di Marcel Marx. Il cognome può ricordarvi a scelta Karl o Groucho, mentre il nome è ovviamente un omaggio ai film populisti del regista Marcel Carné. Lui è stato uno scrittore famoso, rovinato da una vita smodata e finito a fare il lustrascarpe.
Questa professione gli permette però di rimanere vicino ai suoi amici, che Kaurismaki veste e fa parlare come personaggi dei film francesi degli anni quaranta: portuali bruschi, ma dal cuore d’ oro; commissari di polizia meno brutali che all’ apparenza, e una moglie che sopporta serenamente le sue stramberie. La donna si chiama infatti Arletty, come l’ attrice protagonista del celebre film di Carné, Amanti perduti. La citazione in questo contesto ci invita al ricordo di un film fastoso e melodrammatico che il regista usa come un preciso riferimento emotivo.
In questo ambiente quasi da favola entra in scena la realtà. Un ragazzo, arrivato clandestinamente con un gruppo di emigranti, incontra il protagonista e affida a lui il suo destino. Non diremo ovviamente il finale, ma alcuni avvertimenti allo spettatore vanno dati. Il regista vuole mettersi dal punto di vista dei suoi personaggi poveri e perseguitati dal potere della polizia e dai borghesi razzisti. Ma non usa nessuna proclamazione ideologica o una scontata verità politica. Non vi rinuncia: vuole piuttosto che la ricaviamo noi dall’ andamento della storia.
A conferma di quanto il suo sguardo sia critico e fermo, si badi ad un altro dato paradossale. Ad un anziano Jean Pierre Léaud – l’ attore icona di Truffaut in tanti suoi film - ha affidato la parte di un laido e violento borghese, che passa le giornate a spiare un clandestino fragile e senza difese.
Intendo dire insomma che non ci si deve far ingannare dai toni
sentimentali e gradevoli del film, dai colori ben scelti e dalla bontà dei protagonisti. Dietro la tonalità favolistica, c’è la visione crepuscolare e pessimistica di
un intellettuale che dice allo spettatore:
in questa favola c’è più dolore e realismo di quanto tu immagini. E guarda caso, nelle favole è proprio così.
( in uscita sul mensile Confronti)
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